“Anche un pessimo caffè è meglio di nessun caffè”, recita un aforisma del regista statunitense David Lynch. Una provocazione, la sua, che però la dice lunga sul “ruolo”, sempre più incisivo, del caffè all’interno della società attuale, dove tutto è così frenetico e vorticoso. Quasi nervoso.
Ed è proprio in un paese dove correre è l’imperativo – stiamo parlando del Giappone – che uno studio ha rivelato come, la diagnosi precoce del morbo di Parkinson potrebbe essere in qualche modo agevolata dalla misura della quantità di caffeina contenuta nel sangue.
La malattia, infatti, si manifesta in presenza di bassi livelli di caffeina – che si trova anche nel the e nelle bevande a base di cola – all’interno del plasma, ovviamente a prescindere dal consumo di caffè (è bene precisarlo, considerando che ad oggi quasi non si contano gli studi internazionali relativi all’ipotesi che chi beve caffè è meno a rischio di ammalarsi di Parkinson).
Per qualche ragione, nella sua fase precoce il Parkinson è contraddistinto da alterazioni (attualmente ignote) del metabolismo della caffeina.
Gettando lo sguardo più avanti: nel futuro un prelievo di sangue potrebbe contribuire alla diagnosi precoce del Parkinson.
I risultati dello studio giapponese sulla correlazione fra caffeina e diagnosi del Parkinson
Guidata da Shinji Saiki dell’Università Juntendo a Tokio, la ricerca è stata condotta su 108 pazienti e 31 coetanei sani di controllo e i risultati sono stati pubblicati su Neurology (verso la fine del 2017, un articolo pubblicato sulla stessa rivista da un team di ricercatori brasiliani e canadesi ha indicato nei confronti del caffè un’azione di “casualità inversa”, ovvero chi sta sviluppando il morbo di Parkinson va incontro, ancora nella fase iniziale, a una ridotta tollerabilità per la caffeina, provandone minor voglia e traendone minor beneficio).
Tornando alla ricerca nipponica, nel corso della sperimentazione (durata un anno) il team di ricercatori ha impiegato una quantità di caffeina che corrisponde a 2 tazzine di caffè quotidiane, ciascuna pari a una concentrazione di 60 milligrammi di caffeina. Il test ha coinvolto tutti i 139 pazienti sopracitati, suddivisi in due gruppi.
Dopo i test, la quantità complessiva di caffeina presa da entrambi i gruppi risultava sempre la medesima, ma nel momento in cui all’interno dei loro campioni veniva esaminata la concentrazione della caffeina nonché dei suoi basilari metaboliti nei pazienti, risultava circa dimezzata (in particolar modo per quanto concerne i tre principali metaboliti: teobromina, teofillina e paraxantina).
I ricercatori hanno rilevato che se si va a verificare nel sangue di chi è affetto da Parkinson dopo che ha assunto caffè, si trova il 50% in meno sia del livello di caffeina sia di quello dei metaboliti derivati rispetto a quanto si trova in una persona sana (tale riduzione si osserverebbe ulteriormente in chi sta appena iniziando ad ammalarsi).
Dunque, i ridotti livelli di caffeina nel sangue rilevati dal team di ricerca vanno ritenuti un vero e proprio marker di vulnerabilità alla stregua della tendenza a non assumere caffè propria di questi pazienti. Nel breve: chi rischia di sviluppare il Parkinson ne assume di meno.
Conclusioni scientifiche sulla ricerca della correlazione fra caffeina e Parkinson
La spiegazione di tali risultati scientifici risiederebbe nel fatto che l’azione della caffeina – protettiva nel combattere i fenomeni di neurotossicità (responsabili della privazione dei neuroni dopaminergici, caratteristica del Parkinson) – verrebbe “ostacolata” dalle modificate caratteristiche genetiche di determinati recettori neuronali, con un ruolo basilare nella funzione motoria.