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Sindrome di Marfan: Il Punto di vista dello Psicologo

Aspetti psicologici e approccio integrato nell'ambito della Marfan Clinic

Premessa

Mi soffermerò brevemente sulla messa a fuoco del concetto di malattia individuandone, a partire da un orientamento psicologico di tipo analitico, due versanti, con lo scopo di evidenziare il valore e l'importanza di un intervento integrato medico-psicologico, nel contesto di cui ci stiamo occupando. I due versanti riguardano:
da una parte,  la malattia le cui radici sono di carattere genetico,  dall'altra,  la malattia le cui radici sono situabili in un conflitto intrapsichico.
In tutti e due i casi abbiamo un'alterazione della funzionalità organica e in tutti e due i casi abbiamo l'incontro con la malattia come predeterminato, nel primo caso da ragioni genetiche, nel secondo da ragioni inconsce o, per così dire, di tipo affettivo-relazionale.
In entrambi i casi, tuttavia, la malattia si incontra, al di là della sua più o meno predeterminazione, come "evento imprevisto". L'"evento imprevisto" è ciò che fa Trauma per il soggetto.
Quali sono le caratteristiche del trauma? Che cosa è un trauma?
Il trauma è qualcosa che tocca direttamente il corpo e che ha egli effetti sulla mente, ma questi effetti risultano di difficile simbolizzazione.
Il soggetto colpito da un trauma è un soggetto in deficit rispetto al sistema simbolico, non ha le parole per dire ciò che lo riguarda, malgrado il suo corpo ne sia toccato e ne subisca le conseguenze. Egli è totalmente travolto dall'evento.
Perciò possiamo dire che fa trauma un evento pulsionale che non rientra nello scambio della dialettica intersoggettiva. Come si guarisce dal trauma?
Si guarisce a condizione di trovare le parole capaci di rendere possibile una rappresentazione dell'evento traumatico, una rappresentazione simbolica che, in quanto dotata di senso, allevia e man mano cancella l'impatto e gli effetti traumatici.
Detto in altri termini, si tratta di fare incontrare,  nella psiche,  "evento imprevisto" e parola. Il che vuol dire mettere la parola lì dove manca.
Ho introdotto per questa via  un accostamento che è fondamentale ricordare, proprio perché rimosso o spesso misconosciuto, quello tra il corpo e il linguaggio.
La parola si presenta innanzitutto al bambino nell'incontro con il suo primo Altro che è la madre e via via col mondo familiare, sociale e culturale, in cui cresce,  vive e si evolve.
Se ne deduce che l'essere umano, a differenza dell'animale, ha un corpo parlante, cioè ha un corpo che incontra il linguaggio, che lo incorpora e che per questo subisce delle conseguenze.
Vale a dire che il corpo dell'essere umano non risponde ad un semplice funzionamento biologico ma risponde, in  quanto è abitato dal linguaggio, al funzionamento della parola.
Dobbiamo perciò immaginare questi due corpi, il corpo biologico e il corpo del linguaggio e pensare che il corpo del linguaggio si incorpora come un calco in quello biologico. E questo ha degli effetti: innanzitutto  perché possiamo dire una cosa alla quale normalmente non si pensa e, cioè,  che

La parola e il corpo

Questo mi serve a introdurre qualche riflessione sull'argomento che oggi stiamo trattando, per mostrare come anche nell'ambito di una costellazione patologica a carattere genetico, il soggetto, anche qui, incontra il linguaggio e come questo possa avere delle conseguenze che vanno riconosciute e trattate da parte di tutti (soggetto, familiari e operatori sanitari). E' questo l'aspetto inerente ad un approccio integrato medico-psicologico.
In sostanza, l'essere umano per curare il suo corpo deve potersi curare dal linguaggio  e, di conseguenza, potrà curarsi almeno da quella parte della malattia, presa nel linguaggio, che risulterà curabile.
In che modo si incontra qui, in questo contesto, il linguaggio e con quali conseguenze?
Lo si incontra sotto la forma del "brutto incontro" ovvero della "marca", cioè di una definizione che viene a indicare una certa posizione del soggetto nel mondo.
Basti pensare a quei soggetti affetti da malattie come la sieropositività, la Sindrome di down, il cancro, l'anoressia, etc. Tutte patologie che, seppure diverse perché ognuna riguarda il corpo in un modo diverso, entrano nella vita del paziente come "marche",  come "insegne" che rischiano di fare tutt'uno con il soggetto stesso, nel senso in cui possiamo dire che il soggetto è identificato totalmente con la sua "insegna".  Farò qualche esempio.
Avendo una certa esperienza nel trattamento di pazienti anoressiche posso effettivamente testimoniare che, anche a questo livello, l'essere anoressica diventa l'essere stesso del soggetto, cioè diventa un nome che prende il posto del nome proprio, diventa una carta di presentazione di fronte al mondo.
Dietro questa identificazione totalizzante alla malattia il soggetto si perde, eclissando il valore della sua particolarità. Dietro il dire "Io sono un'anoressica", con cui si apre e si chiude qualunque discorso, si coltiva il senso dell'isolamento del soggetto e della sua chiusura al legame sociale, all'incontro con l'Altro, unica prospettiva in cui può affiorare quel desiderio che, dicevamo, umanizza il soggetto, rendendolo capace di accogliere innanzitutto la propria mancanza e, dunque, i suoi bisogni e il suo diritto ad avere un posto nel mondo, una progettualità, comunque sia. La parola e il corpo sono in un legame profondo.
Il soggetto che, ad esempio, incontra con la malattia il ritorno di una marca sul suo stesso corpo è come un soggetto colpito da un trauma che, se non trattato attraverso il potere terapeutico di un "ascolto mirato", di quell'ascolto capace  di restituire il senso di una soggettività ferita, rischia di chiudersi nell'isolamento e di lasciare che la sua malattia parli al posto della sua voce.
Penso ad alcune conseguenze come, ad esempio, quegli effetti di mummificazione non solo del corpo ma dello stile di vita dell'anoressica. In casi come questi vediamo che la malattia prende il posto del soggetto. Si tratta di lavorare perciò attraverso un ascolto che vada nella direzione di una separazione, di uno sganciamento dell'incollamento tra soggetto e sindrome.
Credo che questo sia un problema che emerga non soltanto dal lato di chi è malato ma anche dal lato di chi lo assiste, siano essi i familiari o il personale sanitario. L'impasse è per tutti, perché la malattia porta con sé necessariamente sentimenti contrastanti e ambivalenti che per esempio possono produrre meccanismi di difesa, relativamente alla dinamica medico-paziente.
In un certo senso è anche naturale che questo accada,  perché c'è uno spazio dove il sapere medico può non trovare risposte, dove quel sapere legato "alla capacità potenziale di guarire e di agire con ogni trattamento capace di contenere la malattia", deve trovare un confronto con la soggettività del paziente.
Non è possibile ridurre l'individuo ad essere soltanto un corpo o, più precisamente, un "corpo malato". Si tratta di fargli avere un corpo ma, soprattutto, un "corpo umanizzato".
Il corpo umanizzato è un corpo vivo, perché è animato da bisogni ed emozioni, capaci di tenere a distanza l'identificazione alla serialità della malattia e, di conseguenza, l'identficazione con il rifiuto dell'Altro o, anche, con ciò che rende passivi e dipendenti in funzione di un sentimento di inadeguatezza o di vergogna.

Il segno del “meno”

Se per malattia intendiamo uno stato di squilibrio della salute del corpo, laddove la salute è il mantenimento di un equilibrio omeostatico nel funzionamento organico, la malattia, in quanto è una perturbazione rispetto all'omeostasi, innesca e presentifica un punto di resistenza nel fluire della vita, una sorta di "impasse" che introduce un meccanismo anti-vitale, in controcorrente rispetto alla pulsione di vita con un effetto di mortificazione del soggetto che va dalla depressione, al sentimento di inadeguatezza, alla percezione di un senso di diversità o di marginalità, che lo portano a ingaggiare una certa modalità nelle relazioni che sono spesso contrassegnate dall'ambivalenza affettiva, da sentimenti di amore-odio, da bisogni e smentite in un clima che è spesso di smarrimento tra chi assiste e chi è assistito.
In generale molti sono i non-detti, anche perché non sempre è possibile dire tutto sul Dolore ed è proprio per questo che diventa fondamentale imparare a dirne almeno qualcosa.
Dunque, al di là delle conseguenze legate al malfunzionamento organico, la diagnosi (sindrome di Marfan) è già di per se stessa parola che introduce un meno, un segno di mancanza, è una sorta di marca non solo sul corpo ma sull'identità del soggetto.
Un soggetto entra nella vita marcato dal segno "meno", laddove qualcun altro vi entra marcato dal segno "più". Questo "meno"  viene a delineare una certa posizione di "eccezione" che ha delle conseguenze psicologiche inevitabili sia nel malato che in chi gli sta vicino.
Dove c'è il dolore è difficile che l'"eccezione" si possa umanizzare, eppure è di questo che si tratta, di umanizzare ciò che si presenta per difetto, restituendo con l'ascolto ciò che è così difficile dire con le parole. Da qui l'importanza che questi pazienti possano sentirsi parte di un gruppo, di una corporazione e, allo stesso titolo, possano curarsi attraverso il lavoro di gruppo, perché il gruppo è anche un luogo di confronto e di riconoscimento del loro malessere. Se l'essere umano ha come destino quello di essere in buona parte "parlato" dall'Altro, l'Altro che, come dicevamo, nella nostra vita assume varie forme: è innanzitutto l'Altro della nostra storia familiare, è l'Altro genitoriale, poi è l'Altro sociale, etc., ma anche l'Altro della medicina o della scienza, credo che mai come nel caso di una problematica che tocca il corpo, producendo degli effetti reali anche gravi o invalidanti, l'Altro che incontriamo, sottoforma della malattia, è veramente l'"evento imprevisto" che produce un sentimento di impotenza soprattutto in un mondo come quello contemporaneo costruito sulla negazione del dolore, della malattia, della morte.
Che cosa fare di questa impotenza?
Un noto filosofo esistenzialista francese, J. P. Sartre, riassumeva il senso del suo pensiero in una frase: Ognuno può fare qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di lui. Mi piace interpretare questo messaggio pensando che esso in fondo ci suggerisca la possibilità di trattare, in qualche modo, ciò che ci tocca incontrare nella vita. Penso perciò che si possa provare a dire che ognuno può fare qualcosa di ciò che la malattia ha fatto di lui.
Allora se collochiamo la  scienza dal lato dell'Universale e l'individuo dal lato del Particolare, l'individuo chiuso nel'Universale della definizione scientifica non ha nulla da dire al mondo, egli è parlato dalla scienza, e perde la sua identità a favore del fenomeno che rappresenta. Allora non gli resta che l'auto rimprovero, oppure la rabbia o il rancore. Subentra l'inbizione e il senso di colpa. Tutti questi fattori hanno lo scopo di deresponsabilizzare il soggetto, per esempio producendo un senso di ritiro di fornte al mondo come scudo alla propria implicazione nella vita. Qui emerge la necessità della parola e dello sguardo dell'Altro, introdotto nella dialettica dell'ascolto,  come strumento capace di reintegrare il bisogno del malato di far parte a pieno titolo della vita, facendo appello a quel riconoscimento del proprio essere che, al di là di un corpo diviso dall'insegna che lo tocca, restituisca il diritto all'amore, al sentirsi prezioso ed essenziale: Essere vivo significa essere visto, entrare nella luce di uno sguardo amante (Christian Bobin)
Non c'è antidoto di fronte al dolore e alla morte: si tratta di aspetti della vita cui tutti siamo soggetti e che non possono essere rimossi. Ci sono situazioni nelle quali molto può fare il sapere tecnologico e l'abilità scientifica (ad esempio come in questo caso l'importanza della diagnosi pre-natale), altre in cui, questo sapere non sempre può funzionare come garanzia: solo la partecipazione affettiva può consolare, allontanare la vergogna dell'insuccesso, la percezione persecutoria della propria inadeguatezza e riaprire la fiducia e la speranza.
D'altra parte non potrebbe, credo, definirsi scientifico un atteggiamento e una prassi che coincidono con l'assenza di informazione e di coinvolgimento e quindi negano la possibilità di una scelta partecipe e guidata.
Un approccio integrato medico-psicologico serve, in questo contesto, a consentire che la sofferenza legata al danno della malattia non sia ulteriormente aggravata dai problemi affettivi che portano un grado di appesantimento aggiuntivo che si accompagna sempre all'assenza di una necessaria presa in carico della sfera emozionale.
Per arrivare al recupero del sentimento della vita, a dispetto di ogni pre-determinazione, occorre fare un lavoro, non è qualcosa di cui si è dotati in partenza e che viene da sé. Tuttavia in questo recupero o, piuttosto, in questa costruzione ex-novo,  si colloca qualcosa di un'apertura verso l'etica, intesa come ciò che nell'accogliere la contingenza va controcorrente rispetto al sentimento dell'angoscia.
La posizione etica nel paziente, così come nel medico, consiste in fondo in quello sforzo di trattare ciò che per definizione è dell'ordine dell'intrattabile, ovvero quell'angoscia che il reale della malattia mette in campo.
Perché  il "lavoro accanto a pazienti colpiti da una malattia grave….richiede tuttavia una tale energia da parte degli operatori sanitari e delle famiglie, spesso esausti per l'eccesso di tensioni emotive inespresse, che capire meglio se stessi, capire meglio anche l'altro, spesso permette loro di reggere e di venire a patti con la propria angoscia e con quella del malato. Il che vuol dire imparare a  dare all'informazione e alla qualità della relazione tutto il loro valore e tutto lo spazio necessario per fare andare insieme e non separatamente la scienza e il soggetto, cioè il corpo e la parola.
Ultimo aggiornamento: 06 Febbraio 2007
13 minuti di lettura

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