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Tumore del colon-retto metastatico

Oggi il tumore del colon-retto, se individuato in tempo, è curabile.

Il “bersaglio” principale: il fegato - I sintomi, spesso tardivi, delle Metastasi epatiche - Come si arriva alla diagnosi - L’importanza di fare subito la scelta giusta - Verso una terapia personalizzata 

Oggi il tumore del colon-retto, come molti altri tumori, è curabile, specie se individuato in tempo, mediante controlli che previsti dal il sistema sanitario del nostro paese per i cittadini che hanno raggiunto i 50 anni d’età. In molti casi i pazienti operati con successo per un Tumore primitivo del colon-retto, possono considerarsi guariti.

Purtroppo però, un numero significativo di malati (1 su 4) arrivano alla Diagnosi già con la malattia diffusa in altre parti del corpo cioè con metastasi (o tumori secondari). Il più delle volte le metastasi provocate dal tumore al colon-retto, sono localizzate a livello del fegato (metastasi epatiche).

Può accadere che in pazienti inizialmente non metastatici, si sviluppino successivamente all’asportazione del tumore al colon-retto, una o più metastasi.
Una metastasi epatica si manifesta in genere nei i primi tre anni dalla diagnosi e dall’avvenuto trattamento (intervento chirurgico per asportare il tumore primitivo al colon-retto e successiva chemioterapia, prescritta proprio per ridurre la probabilità di recidive).

Com’è possibile che un tumore primario dia origine alle metastasi? La ragione sta nella capacità delle cellule del tumore di “colonizzare” altri distretti dell’organismo, soprattutto se il tumore, al momento della prima diagnosi, aveva già coinvolto i linfonodi vicini. In pratica, alcune cellule tumorali possono raggiungere il fegato anche molto precocemente, addirittura al momento della prima diagnosi. Sono cellule che sfuggono ad ogni esame oggi disponibile. Questa disseminazione iniziale del tumore al fegato può causare la crescita di altre metastasi. Una crescita che la chemioterapia post-intervento può rallentare ma non debellare completamente. 

Così, circa il 40-50% delle persone operate per un tumore primitivo del colon-retto sviluppano, purtroppo, una o più metastasi al fegato nel tempo. A queste si sommano il 20% che ne sono colpiti fin dall’inizio, cioè al momento della prima diagnosi di tumore del colon-retto. Secondo la stadiazione del tumore, questi pazienti si trovano dunque allo stadio IV della malattia.

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Il fegato è il 'bersaglio' principale

Perché le cellule tumorali del colon-retto colonizzano principalmente il fegato? Questo organo è il “bersaglio” più probabile di una metastasi a distanza.

Ciò accade a causa della particolare struttura del sistema circolatorio dell’apparato digerente. Una parte del sangue che irrora il colon e il retto, prima di ritornare al cuore e da lì al polmone per essere riossigenato, raggiunge proprio il fegato attraverso il cosiddetto sistema portale. Si tratta di un sistema venoso, che svolge una funzione importantissima: quella di trasportare fino al fegato le sostanze nutritive che sono assorbite dall’intestino. È per questa ragione che questo organo è la prima “stazione” di ogni cellula tumorale che abbia raggiunto il sangue.

Nella diffusione delle cellule tumorali e nello sviluppo a distanza di nuovi tumori o metastasi, il fattore tempo ha un ruolo cruciale. Per questo motivo, in caso di tumore primitivo del colon-retto, dopo l’intervento chirurgico e l’eventuale chemioterapia, sono necessari controlli periodici successivi, per consentire una diagnosi precoce di possibili metastasi che permetta di curare tempestivamente le recidive.

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I sintomi sono spesso tardivi

In molti casi, le metastasi non danno alcun segno della loro presenza e sono scoperte a seguito di controlli di routine, che in genere sono prescritti a chi ha subito un tumore primitivo del colon-retto proprio per rendere possibile una diagnosi precoce. Per questo è molto importante non evitare di sottoporsi ai test e agli esami indicati dal proprio medico curante. Spesso si tratta di lesioni di piccole dimensioni che non danneggiano l’organo e non provocano sintomi anche per lunghi periodi.

Soltanto quando hanno raggiunto dimensioni considerevoli le metastasi epatiche provocano sintomi che, in genere, sono comuni anche a molte altre patologie che colpiscono questo organo:

  • stanchezza protratta (astenia);
  • febbre serale;
  • perdita di appetito;
  • calo di peso.

Con il crescere delle lesioni e quindi del danno epatico, possono comparire anche un colorito giallastro della pelle e delle cornee (ittero), dolore sordo o senso di pienezza sotto lo stomaco (epigastrio), la massa del tumore può essere palpabile e l’addome può distendersi a causa della formazione di liquido all'interno dell'addome (ascite).

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Come si arriva alla diagnosi

Le metastasi epatiche possono essere localizzate a una parte del fegato o a tutto l’organo. Singole o multiple, le metastasi possono variare da pochi millimetri a diversi centimetri. Le lesioni sono spesso individuate a seguito di un’ecografia dell'addome o di una TAC di controllo. Anche il livello nel sangue di alcuni “marcatori” come il CEA (antigene carcino-embrionario) può orientare la diagnosi.

In particolare le metastasi al fegato possono essere diagnosticate tramite:

  • Antigene carcino-embrionario (CEA).
    Si tratta di un “marcatore”, una proteina presente in alcuni (ma non in tutti) i pazienti con tumore del colon-retto. I livelli dell’antigene CEA nel sangue possono essere aumentati in caso di metastasi. Ecco perché, in caso di esami del sangue che mostrino un simile aumento, l’oncologo richiederà ulteriori accertamenti, in genere una tomografia o un’ecografia. Ma il CEA non è un marcatore del tutto affidabile, perché in molti pazienti può non essere alterato anche in presenza di metastasi. Dunque, un controllo accurato (che di solito è prescritto annualmente) non può fare a meno degli altri test.
  • Ecografia.
    All'ecografia, le lesioni si manifestano perlopiù come nuclei scuri (perché ipo-ecogeni), circondati da un alone.
  • Tomografia computerizzata (TAC).
    La TAC consente di visualizzare le lesioni nel contesto dell’anatomia del fegato e, quindi, di decidere se e come procedere con un eventuale intervento chirurgico.
  • Tomografia a emissione di positroni (PET).
    Per un ulteriore affinamento della diagnosi si può procedere ad una PET, che rileva il metabolismo delle cellule tumorali ed è in grado di individuare anche lesioni molto piccole, purché di diametro superiore a 3-5 millimetri, eventualmente presenti non solo nel fegato, ma anche in altri organi.

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L’importanza di fare subito la scelta giusta

Fino a ieri, il trattamento chirurgico radicale di queste metastasi era possibile soltanto in una minoranza di casi. Solo il 10-20% dei pazienti con metastasi epatiche, infatti, presenta lesioni operabili. Negli altri casi la chemioterapia con un cocktail di farmaci (per esempio: fluouracile + ossaliplatino e/o irinotecan), rappresenta il trattamento più impiegato.

Oggi, però, sono disponibili nuove tecniche chirurgiche anche innovative e non invasive e nuovi farmaci a bersaglio molecolare, che possono rendere operabili lesioni altrimenti non trattabili. Per questi farmaci, i risultati di numerosi studi clinici hanno mostrato una tendenza favorevole in termini di sopravvivenza globale e libera dalla progressione della malattia.

La scelta della prima strategia di cura da adottare (il cosiddetto trattamento di prima linea) in caso di diagnosi di tumore metastatico del colon-retto è molto importante e delicata. Pazienti sensibili a uno dei farmaci impiegati potrebbero non esserlo per gli altri (o viceversa) e potrebbero subire un peggioramento delle condizioni generali tale da impedire una seconda opportunità (cioè l’accesso al trattamento di seconda linea).

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Verso una terapia personalizzata

La terapia personalizzata è la soluzione che la ricerca scientifica sta mettendo a punto per questo problema. Oggi i cosiddetti biomarcatori possono aiutare i medici a scegliere quale terapia sia la più appropriata per il singolo paziente in funzione delle caratteristiche genetiche del tumore.

Per quanto riguarda il tumore del colon-retto metastatico, grazie alla ricerca genetica su un gene KRAS è possibile sapere in anticipo se un determinato tumore è sensibile o meno ad un particolare anticorpo monoclonale (cetuximab), realizzato appositamente per colpire le cellule del tumore stesso.

Si è visto che la progressione del tumore del colon-retto dipende anche dall’attività e dalle caratteristiche di alcune molecole situate sulla membrana della cellula o poste all’interno della cellula stessa. In particolare, coinvolti nell’attività neoplastica della cellula tumorale sono:

  • il recettore del fattore di crescita dell’epidermide (acronimo: EGFR, dall’inglese: Epidermal Growth Factor Receptor), responsabile dei meccanismi di crescita, moltiplicazione della cellula tumorale e della sua capacità invasiva verso altri organi;
  • il recettore del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (acronimo: VEGFR, dall’inglese: Vascular Endothelial Growth Factor Receptor), indispensabile per lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni che nutrono ed ossigenano il tumore.

Anticorpi specifici in grado di interferire con tali meccanismi chiave della proliferazione cellulare, come ad esempio il cetuximab, sono in grado di disattivare tali bersagli e, se associati alla chemioterapia, possono causare l’arresto della crescita del tumore o addirittura una sua regressione fino a rendere operabile la lesione. Unica condizione è che quel meccanismo non abbia subito una mutazione che lo rende resistente al farmaco. Per questo è stato implementato un test, detto test del KRAS, che verifica se un paziente è responsivo o meno al trattamento. Questo test si effettua in laboratorio, su richiesta dell’oncologo, sul tessuto tumorale proveniente dall’intervento chirurgico o da una biopsia sia del tumore primitivo che proveniente dalla metastasi, utilizzando cioè il materiale biologico anche già in possesso.
 

Riferimenti bibliografici

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  • Van Cutsem E, Bokemeyer C, Heeger S et al. ASCO 2011

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Ultimo aggiornamento: 24 Novembre 2014
10 minuti di lettura

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