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"Qui faccio tutto io": dove nasce la convinzione di essere indispensabili?

Ecco perché a volte abbiamo la sensazione di essere così indispensabili.

"Tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile", un detto molto diffuso e spesso assolutamente vero, ma non per alcune persone che, in ambito lavorativo o familiare, si considerano davvero insostituibili e sono convinte di fare tutto loro.

Uno studio risalente addirittura al 1979 condotto dalla University of Waterloo indagò sul menage familiare di coppie sposate ed evidenziò che se veniva chiesto ad entrambi i coniugi di fare un’autovalutazione del proprio contributo, sia negativo che positivo, in famiglia entrambi, mariti e mogli, avevano la tendenza a sovrastimare il proprio apporto.

E l’idea del "faccio tutto io" dilaga soprattutto in ufficio. A indagare sul perché alcune persone credano di essere così necessarie è anche lo studioso Nicholas Epley dell’Università di Chicago che condusse nel 2006 uno studio su alcuni professori di Harvard. L’obiettivo era capire in che modo i professori considerassero importante il proprio contributo. Conclusione: anche se tutti lavoravano in team accademici, ogni ricercatore era convinto di aver fatto almeno il 100% in più degli altri.

Più recente una ricerca, sempre firmata da Epley, che ha visto coinvolti alcuni volontari divisi in 3 gruppi: due dovevano risolvere alcuni puzzle di parole e un terzo gruppo dove supervisionare e coordinare la situazione. Alla fine sono stati proprio i componenti del terzo gruppo ad aver avuto la certezza di essere stati fondamentali per la buona riuscita del compito assegnato. Senza il loro indispensabile contributo, insomma, nulla sarebbe stato ottenuto.

Ma perché a volte abbiamo la sensazione di essere così indispensabili? In generale le persone hanno la tendenza a sovrastimarsi, a ricompensare se stesse, ma quelle egocentriche non riescono proprio a vedere ciò che fanno gli altri. L’egocentrico riesce a riconoscere solo ciò che fa lui in prima persona.

Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre 2020
2 minuti di lettura
Commento del medico
Dr.ssa Grazia Aloi
Dr.ssa Grazia Aloi
Specialista in Psicologia e Psicologia clinica

Tutti noi funzioniamo attraverso dei processi cognitivi che ci permettono (o dovrebbero permetterci) di vedere le cose del mondo - idee e comportamenti leciti - sotto due aspetti: Quello nostro interno a noi stessi e quello esterno a noi (cioè appartenente agli altri).  Se tutto funziona, abbiamo una buona stima di noi e abbiamo un buon grado di empatia e considerazione verso gli altri. È “colpa” del primo caso se a volte siamo addirittura insopportabili; siamo cioè nel caso (non poi così raro), in cui riusciamo a vedere il mondo solamente con i nostri “occhi” interiori, talmente occupati a tirar fuori il nostro (solo ed unico) punto di vista che non ci accorgiamo che anche gli altri ne hanno uno loro; anzi, non è addirittura  per nulla importante che corrisponda al nostro e il concetto di “somiglianza” (che è una vera e propria teoria psicologica) non ci sposta di un millimetro: è impossibile  accorgersi, altrimenti non saremmo in questa sorta di comportamento antipatico, arrogante, superbo se non addirittura deviante-patologico.

Inizialmente, tutti lo siamo e ci restiamo impigliati fintanto che i nostri concetti provenienti dai processi mentali non maturino fino al punto da farci “riconoscere” l'altro come essere rispecchiante/esistente rispetto a noi e pure pensante alla sua maniera. Occorre maturare, rendersi conto che le relazioni personali e sociali pretendono che esso avvenga: altrimenti siamo e restiamo quei “Bambini Egocentrici” che non hanno ancora sviluppato l'età delle operazioni concrete. Normale per  bambini fino all'età di sei, sette anni, (Jean Piaget).

Quindi, si parla in prima persona, si sovrappongono i propri discorsi sugli altri, non si considera la presenza dell'altro e soprattutto non vengono minimamente prese in considerazione le esigenze dell'altro.

Quanti adulti, ben maggiori di sette anni, mantengono questo atteggiamento? Ne abbiamo prova nelle chiacchierate con gli amici, nel fare la fila, nel prendere una decisione collegiale ecc., insomma tutti i giorni siamo circondati da egocentrici – e magari pure noi ogni tanto, in momenti di particola forza psichica, lo siamo.

Quindi, a mio parere la questione starebbe in questi termini: 

faccio tutto io -  perché solo io lo so fare perché io so come si fa e tu no, oppure lo faccio meglio di te

“io sono indispensabile - perché non posso considerare il tuo valore e la tua capacità perché ho già le mie da tirar fuori e far vedere” .

Più o meno, è questo.

Ma come se ne esce? Il primo è presto e già detto: maturando e considerando “realmente” l'altro con tutto ciò che possiede nella mente. Il secondo è meno brillante e decisamente più antipatico: passare alla forma più “seria” dell'egocentrismo, cioè all'egotismo.

Se egocentrismo significa non considerare l'altro fino a negarlo, egotismo significa tracotanza nella magnificazione e contemplazione di Sé e delle proprie azioni e nella ipervalutazione delle proprie capacità ed esperienze, compromettendo quelle degli altri. Un’altra versione ritenuta simile allo strafare dell'egocentrico è il narcisismo, ma lo è in modo erroneo, perché il narcisista considera eccome gli altri, ma per subordinarli e farli lavorare al posto suo e poco gli importa di chi faccia meglio, purché sia una pecorella del suo gregge. Che cos'è tutto questo se non esattamente il contrario? Cioè la compensazione della fragilità del proprio Io nello strafare, esponendosi però anche a situazioni relazionali e sociali spiacevoli se non addirittura pericolose.

Dunque: tutti siamo utili se sapremo esserlo. E, tutti siamo indispensabile se sapremo riconoscere l'altro e, soprattutto, i nostri limiti.

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